La ricompensa è il viaggio | #9 Il diario di Ettore La casa sulla collina
di Ettore Boles
PAPUA NUOVA GUINEA
Faceva parte dell’avventura, partire senza avere la minima idea di dove andare; ma faceva più avventura non saper neppure dove alloggiare.
Il primo mese lo passammo in un alloggio di transito presso l’episcopio del nostro amico Bishop. Episcopio: ignorando i “termini di Chiesa” pensavo fosse un telescopio per il Vaticano o qualcosa del genere, per vedere Dio e le stelle! Invece era nient’altro che la casa del Vescovo...
Così, mentre ci “acclimatavamo” all’ambiente, al nuovo contesto, fra un progetto e l’altro, un laico missionario, Severino, assieme ad un gruppo di operai, diede il via ai lavori per la costruzione della nostra casa. L’avevano pensata in cima a una collina, nella zona chiamata Lote Mission, ex base di missionari e volontari australiani, che nei primi anni sessanta erano sbarcati per mettersi al servizio degli autoctoni.
A quel tempo non c’erano i mezzi di oggi: quarant’anni fa questi valorosi, così li dovremmo ricordare, una volta sbarcati, ai piedi della collina, caricavano tutto in spalla per iniziare la missione. Un po’ come i vecchi pionieri del far-west, una volta costituito il campo base, si addentravano all’interno, nella pancia della foresta, in cerca di tribù, alcune fra le ultime ancora in attesa di essere scoperte dall’uomo bianco. Missionari religiosi e laici facevano lunghe marce nella foresta con lo scopo di stabilirvi nuove missioni, nuovi punti di riferimento, portare materiali e individuare terreni adatti da spianare per la realizzazione di piccoli airstrips, necessari ai collegamenti aerei. Erano gli “apri pista” di ciò che, a volte impropriamente, chiamiamo sviluppo. Trasportavano pezzi di trattore in spalla e rimontavano tutto per le nuove fattorie, come pure si dedicavano alla cura dei malati, alla costruzione delle prime scuole e via dicendo. Ai tempi, ai suoi albori, il volontariato non era il “mordi e fuggi” di oggi: si partiva mettendo in conto di donare completamente se stessi al mondo, e ciò comportava periodi medio-lunghi di assenza dalla propria terra di origine, se non addirittura tutta la vita!
Nei miei tre anni di permanenza in Papua, ho potuto constatare di persona quanto, anni addietro, avessero compiuto queste persone generose, di grande audacia e valore morale.
La casa sulla collina, semplice ma dignitosa, aveva tutto quanto ci poteva servire: una camera principale, una seconda cameretta di circa due metri quadrati con dei letti a castello, per gli eventuali ospiti, una stanza centrale che fungeva sia da cucina sia da sala da pranzo e un bagnetto, con tanto di doccia e sanitari; il tutto racchiuso in poco più di quaranta metri quadrati.
Era stata costruita in parte in legno, in parte in lamiera, il materiale di rivestimento dei container. Sul tetto, anch’esso in lamiera ondulata per raccogliere l’acqua piovana, era posto un pannello solare per l’acqua calda. Una cucina a gas e un frigorifero ci ricordavano la modernità, in contrapposizione al fuocherello e ai contenitori di fibra naturale, utilizzati dai nostri vicini di casa, i nativi.
Insomma, non c’era proprio da lamentarsi. Inoltre, innalzata tipo palafitta, si evitava l’intrusione di animali indesiderati, come i serpenti. Tuttavia, era stata costruita senza tenere in considerazione quanto nel tempo gli habitants avevano fatto con le proprie capanne: l’unica imperfezione era, infatti, la posizione della casa, che non permetteva di far entrare aria. Le grandi finestre erano state messe nella direzione opposta al tiro del vento, sicché quando c’erano grossi temporali, talmente forti da piegare le piante di cocco, in casa non c’era neppure un sottile spiffero. “Osserva, sperimenta e impara” era il titolo di un vecchio libro di scuola che esprimeva bene il concetto: noi “bianchi”, i “wally”, così eravamo chiamati dai nativi, non eravamo stati in grado di osservare e di imitare quanto, nei millenni addietro, la gente del posto aveva sperimentato con successo. Per questo, e anche a causa dei materiali con cui la casa era stata costruita, si soffriva sempre il caldo umido.
L’energia elettrica era presente per poche ore al giorno, creata e distribuita da un vecchio e rumoroso generatore ancora in vita, grazie ad assidue “cure”. La nostra risorsa idrica era l’acqua piovana, senza sali minerali: a me spettava il compito di bollirla nei grossi pentoloni, la sera, dopo il rientro dalla giornata lavorativa. Posso dire di aver sperimentato la capacità di adattamento dell’uomo. Senza corrente la sera, mangiare, conversare, leggere per ore al lume di candela. Acqua quotidianamente razionata. Il frigorifero era sempre vuoto e le nostre derrate alimentari lasciavano proprio a desiderare. La base di cemento della casa-palafitta era posta su una piccola spianata di terreno. Tutt’attorno, gli alberi fitti, dai quali emergevano verso l’alto fumi di fuoco, segno di una presenza umana.
Un sabato pomeriggio, ossessionato dalla presenza di serpenti, mi metto con una tanica di benzina a far pulizia intorno alla casa: senza esitazione brucio cumuli di foglie, di sterpaglie secche e di legni d’ogni genere. Non sapevo che queste cose fossero la materia prima dei nostri vicini di casa, raccolta con pazienza e fatica, perché necessaria alla cucina quotidiana. Mi sembra di vedere ancora i bambini, sette o otto, che correvano nudi con le loro cerbottane, gridando alla vista delle fiamme alte. Erano i figli di August e di Lucy, una giovane coppia al servizio della stazione missionaria, tutti maschi, concepiti nella speranza di dare alla luce una bambina, unica fonte di ricchezza della famiglia. Secondo le consuetudini, infatti, in caso di matrimonio della figlia, la famiglia ha diritto al “bride price”, il prezzo della sposa, la quale riceve in dote molti doni. Al mattino, mentre noi facevano solitamente colazione con una tazza di tè e biscotti, loro perlustravano attorno in cerca di frutti e nidi da abbattere con le loro fionde: era questo il loro primo pasto.
Eravamo isolati da tutti e la notte avvolgeva la casa con la sua oscurità. La collina sovrastava la baia di Vanimo e la casa era un buon punto di osservazione. All’inizio non ero tanto abituato ai rumori della foresta, alflap flap delle ali dei grossi pipistrelli-volpe che si cibavano dei manghi pendenti dall’albero il vicino a casa, al cinguettare forte e stridente di uccelli di ogni specie, alle luci, grandi come lampadine, emesse dalle lucciole, ai passi dei cacciatori notturni che con arco e frecce cercavano i tree-kangoroo, i piccoli marsupiali d’albero. Questo eco-sistema che circondava la casa, era fatto anche di cicale, di ragni, di termiti e di quant’altro la natura potesse rappresentare. La Croce del Sud, alta e ben visibile nel cielo, mi ricordava di essere agli antipodi del mondo. Le canoe dei pescatori del piccolo insediamento, Lido Village, posto ai piedi della collina, che con la loro lanterna illuminavano le reti gettate nel mare, il frangersi delle onde, il loro sbattere sullo scoglio. La notte. L’alba. Il tramonto. Come velocemente arrivavano, velocemente se ne andavano: erano questi i momenti di vita, vera e genuina, che mi ricordavano la bellezza del creato.
Il primo mese lo passammo in un alloggio di transito presso l’episcopio del nostro amico Bishop. Episcopio: ignorando i “termini di Chiesa” pensavo fosse un telescopio per il Vaticano o qualcosa del genere, per vedere Dio e le stelle! Invece era nient’altro che la casa del Vescovo...
Così, mentre ci “acclimatavamo” all’ambiente, al nuovo contesto, fra un progetto e l’altro, un laico missionario, Severino, assieme ad un gruppo di operai, diede il via ai lavori per la costruzione della nostra casa. L’avevano pensata in cima a una collina, nella zona chiamata Lote Mission, ex base di missionari e volontari australiani, che nei primi anni sessanta erano sbarcati per mettersi al servizio degli autoctoni.
A quel tempo non c’erano i mezzi di oggi: quarant’anni fa questi valorosi, così li dovremmo ricordare, una volta sbarcati, ai piedi della collina, caricavano tutto in spalla per iniziare la missione. Un po’ come i vecchi pionieri del far-west, una volta costituito il campo base, si addentravano all’interno, nella pancia della foresta, in cerca di tribù, alcune fra le ultime ancora in attesa di essere scoperte dall’uomo bianco. Missionari religiosi e laici facevano lunghe marce nella foresta con lo scopo di stabilirvi nuove missioni, nuovi punti di riferimento, portare materiali e individuare terreni adatti da spianare per la realizzazione di piccoli airstrips, necessari ai collegamenti aerei. Erano gli “apri pista” di ciò che, a volte impropriamente, chiamiamo sviluppo. Trasportavano pezzi di trattore in spalla e rimontavano tutto per le nuove fattorie, come pure si dedicavano alla cura dei malati, alla costruzione delle prime scuole e via dicendo. Ai tempi, ai suoi albori, il volontariato non era il “mordi e fuggi” di oggi: si partiva mettendo in conto di donare completamente se stessi al mondo, e ciò comportava periodi medio-lunghi di assenza dalla propria terra di origine, se non addirittura tutta la vita!
Nei miei tre anni di permanenza in Papua, ho potuto constatare di persona quanto, anni addietro, avessero compiuto queste persone generose, di grande audacia e valore morale.
Era stata costruita in parte in legno, in parte in lamiera, il materiale di rivestimento dei container. Sul tetto, anch’esso in lamiera ondulata per raccogliere l’acqua piovana, era posto un pannello solare per l’acqua calda. Una cucina a gas e un frigorifero ci ricordavano la modernità, in contrapposizione al fuocherello e ai contenitori di fibra naturale, utilizzati dai nostri vicini di casa, i nativi.
Insomma, non c’era proprio da lamentarsi. Inoltre, innalzata tipo palafitta, si evitava l’intrusione di animali indesiderati, come i serpenti. Tuttavia, era stata costruita senza tenere in considerazione quanto nel tempo gli habitants avevano fatto con le proprie capanne: l’unica imperfezione era, infatti, la posizione della casa, che non permetteva di far entrare aria. Le grandi finestre erano state messe nella direzione opposta al tiro del vento, sicché quando c’erano grossi temporali, talmente forti da piegare le piante di cocco, in casa non c’era neppure un sottile spiffero. “Osserva, sperimenta e impara” era il titolo di un vecchio libro di scuola che esprimeva bene il concetto: noi “bianchi”, i “wally”, così eravamo chiamati dai nativi, non eravamo stati in grado di osservare e di imitare quanto, nei millenni addietro, la gente del posto aveva sperimentato con successo. Per questo, e anche a causa dei materiali con cui la casa era stata costruita, si soffriva sempre il caldo umido.
L’energia elettrica era presente per poche ore al giorno, creata e distribuita da un vecchio e rumoroso generatore ancora in vita, grazie ad assidue “cure”. La nostra risorsa idrica era l’acqua piovana, senza sali minerali: a me spettava il compito di bollirla nei grossi pentoloni, la sera, dopo il rientro dalla giornata lavorativa. Posso dire di aver sperimentato la capacità di adattamento dell’uomo. Senza corrente la sera, mangiare, conversare, leggere per ore al lume di candela. Acqua quotidianamente razionata. Il frigorifero era sempre vuoto e le nostre derrate alimentari lasciavano proprio a desiderare. La base di cemento della casa-palafitta era posta su una piccola spianata di terreno. Tutt’attorno, gli alberi fitti, dai quali emergevano verso l’alto fumi di fuoco, segno di una presenza umana.

Ettore Boles Nato il 30 novembre del ‘61, settimino, assieme ad altri due gemelli, Gabriele e Luigi. Credo di aver sempre desiderato, fin dai primi passi della mia Vita, esplorare il mondo che mi stava attorno. Successe che un giorno, assieme ai miei fratelli, a carponi m’infilai per la strada antistante il nostro giardino, passando da un buco fatto nella rete del box in cui ci trovavamo a giocare. Da allora ne ho fatti di passi… o meglio di strada, e così un bel giorno sono arrivato fino agli antipodi del mondo, nella lontana Papua Nuova Guinea. Come Forrest Gump, mi sono messo a correre… e non so ancora quando mi fermerò per far ritorno. Ogni tanto, sostando, trovo il tempo di scrivere qualche riga affinché nulla vada perso nell’oblio del tempo. |
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