La ricompensa è il viaggio | #11 Il diario di Ettore Ma questa è la mia carta d’identità!
PARTE SECONDA
di Ettore Boles
Cerco di inquadrare i due soggetti per provare a capire cosa stia succedendo. Mentre converso in inglese con questi sconosciuti, uno di loro mi chiede da dove provengo: rispondo che sono italiano, di Bergamo. Il tizio dice allora di conoscere la mia città e pure qualche parola di bergamasco, e aggiunge che a Bergamo faceva il “vucumprà”. Proprio così, afferma Cristopher, camerunense clandestino, in giro per il mondo. L’altro, il suo compagno di ventura, o sventura, è John Paul, un giornalista afro-americano. Chiedo loro il motivo per cui si trovino in Papua e inizia così il racconto della loro avventura.
La storia ha dell’incredibile.
Il primo, Cristopher, con il sogno di raggiungere la “terra promessa”, l’Australia, sinonimo di felicità, ricchezza e futuro tranquillo, si era imbarcato da clandestino sulle navi di mezzo mondo e così dall’Italia aveva raggiunto Capo Nord da dove poi, di nave in nave, di peripezia in peripezia, con quale mese di viaggio, era arrivato nelle Filippine. A bordo di piccole navi di mercanti, giunto in Indonesia, era stato arrestato per entrata illegale nel Paese; dopo qualche settimana di duro carcere era stato accompagnato alla frontiera con la Papua, e così aveva proseguito il suo giro intorno al mondo.
Il secondo, John Paul, visto come “osservatore scomodo”, da giornalista dichiarato in cerca di reportage su Timor Est, era stato compagno di cella di Cristopher; una volta riacquistata la libertà, avevano deciso di proseguire il viaggio insieme, seppure con diverse destinazioni finali.
Cristopher mi racconta, parlando con il suo italiano stentato, che, appena oltrepassata la frontiera “naturale” fra Indonesia e Papua, la gente del primo villaggio, Wutung, lo aveva chiamato “nigher” (per gli habitants la parola non ha alcun senso dispregiativo, in pidgin-english una persona viene chiamata così semplicemente per il colore della sua pelle). Cristopher, che aveva girato il mondo, soggiornato fra Bergamo e Brescia, non conoscendo il pidgin, aveva interpretato quel “nigher” come una parola dispregiativa.
Mentre si sfoga parlando del carcere, aggiunge: “... a me, darmi del nigher, quando loro sono ancora più neri!”.
Eravamo in un posto isolato, sperduto, su una collina circondata da una fitta foresta, a ventimila chilometri di distanza dal mio paesello di origine e, fatta eccezione per poche altre situazioni che sono poi susseguite, il mondo non mi era mai sembrato così piccolo come quella volta.
Il rito dell’ospitalità è sacro anche da queste parti: invito i due “avventurieri” a entrare in casa, offro loro del cibo e delle bevande e poi vado in cerca di qualche missionario che possa trovarli un alloggio, almeno per il fine settimana.
Il lunedì mattina li accompagno in città, a Vanimo: la necessità è di acquistare un biglietto aereo per Port Moresby. Chiedo se abbiano soldi a sufficienza, visto che sono clandestini... non vorrei che con la scusa di chiamarci tutti “fratelli” debba poi mettere io mano al portafoglio! Mi rispondono di star tranquillo, che hanno tutto: dalle loro tasche affiorano più di seicento dollari americani, giusto il necessario per far fronte a un volo interno servito da una compagnia aerea locale, la cui flotta è costituita da un solo piccolo bimotore con trenta posti. Non indago sulla provenienza dei fondi, non voglio rischiare di essere troppo coinvolto nel favoreggiamento alla clandestinità.
Uno dei due, Cristopher, la parte del clandestino la conosce bene. Mentre ci dirigiamo in auto verso la banca è sempre in allerta: “Attento” di qua, “Attento” di là, ora “Rallenta” e così via con le raccomandazioni. Mi faccio consegnare i soldi, mi presento davanti all’impiegato dell’unica filiale della WestPac Bank e, passaporto alla mano, cambio i dollari in kina, la valuta locale. Il gioco è fatto: per i voli interni il passaporto non è più richiesto, l’importante è avere il “grano” per comprare i biglietti. Chiedo loro quali intenzioni abbiano in mente: Cristopher mi dice che l’Australia è là ad aspettarlo e John Paul desidera raggiungere quanto prima la capitale per mettersi in contatto con il proprio giornale: lo scopo è ritornare definitivamente in America oppure tentare un rientro in Timor Est per altre vie.
Do loro qualche razione di cibo per il viaggio, ci stringiamo la mano e ci auguriamo buona fortuna, un buon augurio fa sempre bene.
Mentre Cristopher comincia ad avviarsi verso la scaletta del piccolo aereo, gli porgo un’ultima domanda: “Che cosa hai intenzione di fare senza passaporto? Sai che non è facile raggiungere l’Australia, il Queensland, da clandestino? Lo sai che se ti prendono ti mettono in un campo di concentramento: sono questi i Campi di Soggiorno Temporaneo australiani!”.
Cristopher, sereno, con la tranquillità e la sicurezza di chi nella vita ne ha viste e affrontate tante, risponde: “Fratello, la mia faccia è la mia carta d’identità, il volto dice chi sono”.
“Beh”, dico io, “la cultura africana è una cosa, le regole del mondo sono un’altra!”.
Gli do una pacca sulla spalla con la raccomandazione di stare attento. Dopo pochi minuti l’aereo decolla e guadagna lentamente quota verso il cielo.
Finisce così la storia di un incontro: per John Paul, penso, non ci saranno stati problemi, avrà certamente chiarito la sua posizione e avrà fatto ritorno in patria senza troppi ostacoli. Chissà invece che fine avrà fatto Cristopher, se definitivamente sistemato negli spazi sconfinati dell’Australia oppure se ancora in giro intorno al mondo, da clandestino. Di lui non ho saputo più nulla ma mi piace immaginarlo sorridente, nella sua “Terra Promessa”, a godere il resto dei suoi giorni.
Ettore Boles Nato il 30 novembre del ‘61, settimino, assieme ad altri due gemelli, Gabriele e Luigi. Credo di aver sempre desiderato, fin dai primi passi della mia Vita, esplorare il mondo che mi stava attorno. Successe che un giorno, assieme ai miei fratelli, a carponi m’infilai per la strada antistante il nostro giardino, passando da un buco fatto nella rete del box in cui ci trovavamo a giocare. Da allora ne ho fatti di passi… o meglio di strada, e così un bel giorno sono arrivato fino agli antipodi del mondo, nella lontana Papua Nuova Guinea. Come Forrest Gump, mi sono messo a correre… e non so ancora quando mi fermerò per far ritorno. Ogni tanto, sostando, trovo il tempo di scrivere qualche riga affinché nulla vada perso nell’oblio del tempo. |
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