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La ricompensa è il viaggio | #6 Il diario di Ettore

La mia Papua

di Ettore Boles

PAPUA NUOVA GUINEA

La mia Papua: Papua bilong me, tradotto in pidgin-english. Mai avrei pensato nella vita di poter arrivare così lontano: approdare nella remota “Papua Asia”, come nel secolo scorso veniva chiamata una parte delle terre oggi appartenenti al “Continente azzurro”, l’Oceania.

Nel gennaio del 1996, dopo due anni e mezzo di attesa e di formazione al volontariato internazionale per esperienze in Africa o in America Latina, a me e a mia moglie Cristina viene proposto un progetto situato a una latitudine estrema, il cui parallelo convenzionale segna undici ore di differenza dal nostro fuso orario. La formazione al volontariato internazionale si è da poco conclusa e in noi sono forti le motivazioni, il desiderio e la prospettiva di sperimentare qualcosa di diverso nella vita, e a coronare tutto c’è anche una buona dose di spirito d’avventura.
Questa Papua, all’origine immaginata solamente come una parentesi di vita, avrebbe lasciato in me, in noi, una traccia così indelebile da rivoluzionare poi la mia esperienza umana passata e presente.


Pensiamo un attimo ai vecchi esploratori che hanno aperto con coraggio le vie attraverso continenti sconosciuti, terre inesplorate, alla ricerca dell’altra metà del globo, alla ricerca dell’altra Umanità. Purtroppo, le esplorazioni del tempo non erano finalizzate solo all’esplorazione geografica, allo sviluppo di diverse scienze tecniche e umane, bensì allo sfruttamento di terre e di popolazioni.
Credo che, forse a causa dell’inospitalità di queste terre, forse a causa delle recenti scoperte esplorative in Australia e Nuova Zelanda, ciò che è oggi è conosciuta come Nuova Guinea abbia avuto la fortuna di essere risparmiata dalla barbarie dei navigatori della Corona inglese. Inglesi, portoghesi, olandesi, tedeschi ed anche italiani avevano tentato più volte di spingersi all’interno dell’isola solcando fiumi navigabili: la carta geografica riporta le “Torricelli Mountains”, a ricordo di un navigatore genovese che tentò di penetrare nell’entroterra attraverso il Sepik River.
Poi c’è stata la storia dei missionari i quali, più di 150 anni fa, con l’intento di portare la conoscenza di Dio al mondo e di evangelizzare le genti, hanno avuto determinazione e coraggio conoscendo gli indigeni, costruendo le prime missioni e affrontando il mondo degli spiriti. Partivano armati di Credo e di Verità e non facevano più ritorno. La maggior parte di essi moriva di malaria oppure, a volte, uccisi dalle popolazioni ostili. Qui come in altre parti del mondo, causa la cultura dominante del tempo, non sono stati pochi i torti commessi nei confronti delle popolazioni autoctone.


La Nuova Guinea, oggi divisa a metà nello Stato della Papua Nuova Guinea e nella regione indonesiana di Irian Jaya, è, con i suoi circa ottocentomila chilometri quadri, dopo la Groenlandia, la seconda isola al mondo. La parte orientale dell’isola, lo Stato della Papua Nuova Guinea, con la sua estensione di circa una volta e mezzo l’Italia, è costituita da un territorio prevalentemente coperto da catene montuose, alcune oltre i quattromila metri di altitudine e da foreste pluviali, impenetrabili perfino a uno spillo.
La Papua Nuova Guinea: definita nei documentari geografico-scientifici come “una delle ultime frontiere della terra”, con scarsità d’infrastrutture quali strade, ferrovie, sistemi di comunicazione, con una popolazione di poco superiore ai quattro milioni e mezzo di abitanti, con la sua ricchezza di risorse naturali, con il suo clima equatoriale caldo-umido, classificata nella zona rossa per malaria endemica, con la sua popolazione guerriera, i famosi tagliatori di teste e i loro riti magici, con le sue biodiversità e il suo eco-sistema per molti aspetti ancora integro, mi piace ricordarla come “Inferno e Paradiso”. Questo lembo di mondo, già oggetto di studio da parte di antropologi, naturalisti, linguisti e via dicendo, dalle prime esplorazioni a oggi non ha ancora smesso di svelare segreti, gelosamente custoditi dai famosi spiriti degli antenati.

Il primo viaggio esplorativo

Mi viene proposto di fare un viaggio esplorativo con lo scopo di sondare la fattibilità di un progetto di sviluppo socio-economico. Accetto la proposta a condizione di avere poi possibilità di scelta fra Africa e Oceania.
A dire il vero, scoprii in seguito che lo studio di fattibilità era una necessità di facciata, giacché l’associazione di volontariato con cui collaboravo desiderava piazzare a tutti i costi la propria bandiera in Oceania e ora, per l’appunto, servivano persone disposte a partire e a rimanere in Oceania per un periodo di medio-lungo termine.
Tutto era partito da un missionario italiano, da poco proclamato vescovo, il cui scopo era quello di colmare non solo i bisogni spirituali ma anche quelli materiali dei “fedeli” residenti nella diocesi a lui assegnata. Costruzione di scuole, di un ospedale, gestione di una farm di mucche, di un allevamento di coccodrilli e altre opere, sembrano essere gli obiettivi a breve termine di questo intraprendente uomo di Chiesa.
Un viaggio così lontano, in un posto sconosciuto, lascia spazio a molte incognite e a vari interrogativi. Negli ultimi due anni mi ero acculturato sull’Africa: i media davano ogni giorno notizia dei drammi del continente, delle “crisi umanitarie” e a me pareva che quella terra fosse il luogo più opportuno per sentirsi “contro corrente”; insomma, il posto giusto per un’esperienza umanitaria, per operare, lasciando, almeno per un periodo, il nostro “sistema” alle spalle. Ma i fatti della vita, a volte, ci portano in direzioni opposte, e non solo in senso fisico, al di là di ogni nostro pensiero e di ogni nostra aspettativa. Questo, in assoluto, è il mio primo lungo viaggio intercontinentale: viaggio stremante, della durata di circa trentasei ore, di cui ventotto di solo volo aereo.

Ho sempre sognato di vestire i panni del viaggiatore, 
per vedere il mondo con i miei occhi e per raccontarlo a modo mio.


Papua bilong me
Partenza da Milano, con tappe intermedie a Londra, Hong Kong, Manila e Port Moresby, la destinazione finale del viaggio è Vanimo; ci si mette in viaggio senza avere la minima informazione sulla località di destinazione. So soltanto che dovrò arrivare in Papua, da qualche parte, senza conoscere se approdare nelle Highlands oppure sulla costa o nel mezzo di una fitta foresta pluviale. È un viaggio verso l’ignoto: nessuna carta geografica riporta Vanimo. Tutto questo fa parte della mia avventura: il partire senza sapere dove approdare.
Dopo Londra, vedo per la prima volta Hong Hong, dove l’aereo, passando in mezzo ad alti grattacieli, atterra lentamente sulla pista del vecchio aeroporto. I piloti devono avere un’abilitazione speciale per portare a terra gli aerei; la pista è su una striscia di terra rubata al mare e un atterraggio troppo lungo potrebbe significare un ammaraggio in acqua.
L’attesa per il prossimo volo, con destinazione Manila, nelle isole Filippine, è abbastanza lunga: circa sei ore sdraiato per terra, senza una poltrona dove poter riposare; in questo vecchio aeroporto, senza aria condizionata, vedo per la prima volta i ventilatori da parete con le loro lunghe pale, proprio come quelli dei film americani raffiguranti i Paesi tropicali.
Fino a quel momento la mia conoscenza fisica del mondo, a parte qualche viaggio in Europa e in alcuni Paesi del mediterraneo, era abbastanza limitata. E non era da meno la conoscenza teorica, visto che a scuola, per tutta una serie di motivi, ero stato anche rimandato in geografia. Di certo prima della Papua, conoscevo bene le mie vallate e alcune cime delle Alpi: proprio da una piccola montagna, posta a baluardo della Valle Brembana, scrutavo l’orizzonte, alla ricerca di spazi infiniti e di terre lontane. Mi riaffiora in mente tutto questo a Hong Kong.

Un detto, appreso da chissà chi, dice che la geografia s’impara girando e non sui libri di scuola.

Nell’attesa osservo persone, turisti, uomini di affari, poliziotti, gente che va e che viene: è questo il mio primo contatto con l’Estremo Oriente. Inizio a godere del mio primo viaggio intorno al mondo, anche se ho alle spalle meno della sua metà.
È un viaggio senza ritorno in quanto, al di là della brevità di questa missione esplorativa, ho già fatto la scelta di dare un taglio netto al passato e al presente, con il lavoro e la routine quotidiana. Proprio con lo scopo di tener fede ai miei propositi, cioè il voler fare un’esperienza nuova, di opposizione al sistema, ho già dato le dimissioni al lavoro, negandomi così qualsiasi via di fuga, di ripensamento. A volte mi chiedo, a distanza di anni, se rifarei la stessa cosa: boh... chissà, probabilmente sì.
Atterriamo a Port Moresby, capitale del Paese, all’alba di un nuovo giorno: mentre aprono il portellone dell’aeroplano sento in sottofondo la canzone di Enya “Anywhere is”, quale benvenuto in questa meravigliosa terra. E, neanche a farlo apposta, le sue parole dicono: “Ovunque è un nuovo inizio, nel labirinto dei momenti”.
Ci attendono, ancora, più di mille chilometri, per altre quattro ore di volo, con altre tre tappe sulle piste di piccoli aeroporti, unici punti di collegamento: Mt.Hagen, Madang e Wewak. Questa la distanza, in linea d’aria, fra la capitale e Vanimo, questa piccola township di frontiera, situata a nord-est, di fronte all’oceano Pacifico.
L’aereo, un Fokker di ottanta posti, sempre dell’Air Niugini, è potente quanto basta per alzarsi sopra le nuvole nel cielo azzurro e per riabbassarsi di nuovo dandomi la possibilità di intravedere dal finestrino grandi fiumi e immense foreste. Un paesaggio immenso, incantevole e incontaminato: mi chiedo quanta gente possa vivere da queste parti.

Atterriamo a Vanimo, capitale della Sandaun Province, vicino al confine con l’Indonesia, alle prime ore di un pomeriggio, di giovedì se ricordo bene: caldo umido, molta afa, io stanco e frastornato dal cambio di fuso orario. Le undici ore di differenza, sommate a un giorno e mezzo di viaggio, non sono uno scherzo, e iniziano a farsi sentire!
Metto così il piede su quel lembo di terra che poi, a distanza di otto mesi, diverrà per quasi tre anni la mia casa, il mio spazio vitale ed esperienziale; con tutti i suoi pro e contro ma certamente importante, come ogni altra esperienza umana.





Ettore Boles
Nato il 30 novembre del ‘61, settimino, assieme ad altri due gemelli, Gabriele e Luigi. Credo di aver sempre desiderato, fin dai primi passi della mia Vita, esplorare il mondo che mi stava attorno. Successe che un giorno, assieme ai miei fratelli, a carponi m’infilai per la strada antistante il nostro giardino, passando da un buco fatto nella rete del box in cui ci trovavamo a giocare. Da allora ne ho fatti di passi… o meglio di strada, e così un bel giorno sono arrivato fino agli antipodi del mondo, nella lontana Papua Nuova Guinea. Come Forrest Gump, mi sono messo a correre… e non so ancora quando mi fermerò per far ritorno. Ogni tanto, sostando, trovo il tempo di scrivere qualche riga affinché nulla vada perso nell’oblio del tempo.

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