L'incipit | #24 Maria Beatriz Do Mar
SI COMINCIA DALLA METÀ

C’erano tutti quelli che contavano, più le comari in cerca di argomenti per le chiacchiere serali. Dell’avvenimento, del ritorno dal manicomio della Loca, la matta, ne avrebbero avuto abbastanza per almeno due mesi, nelle sere in cui le donne si sedevano sul muretto della chiesa di San Sebastiano a prendere il fresco.
Non potevano mancare Pericles, che nel frattempo aveva vinto le elezioni ed era il Vereador di Genipabu, e il suo nemico politico Nixon, che aveva festeggiato col vincitore la sconfitta elettorale con una sbronza di Pitù – o amor do brasileiro – durata due giorni e tre ore. Era stata necessaria una visita domiciliare della dottoressa Myldred.
Viviane non aveva più il pancione, ma in compenso aveva un seno enorme, dovuto alla nascita del piccolo bastardo Aguinaldo. Tatiane era molto indaffarata, ciabattava di qua e di là e salutava chi arrivava con rumorosi e falsi bacioni sulle guance.
Jurema troneggiava. Imponente.
Josynara, la pescatrice di aragostine, per una volta non aveva sul capo il cestino con le sue prede in vendita e la mascherina da sub al collo.Emilson osservava taciturno una fila di formiche giganti al lavoro, seduto sui gradini del ristorante “O Grelhado do Nordeste”, da tempo chiuso. Il proprietario – un olandese sempre un po’ fumato – era fuggito alla fine del carnevale lasciandosi alle spalle una montagna di debiti.
Magna Maria, quella che sapeva usare il computer, arrivò dondolando su un paio di pericolosissimi tacchi alti forse mezzo metro. Comunque fu un bel vedere. Molto sexy.
Pasquale il Gordo fu il primo ad avvicinarla e ad abbracciarla.
Janilson era lì con il berretto troppo grande e la cicca spenta sull’angolo sinistro della bocca.
Non mancavano Graça, che camminava con la pancia in avanti e una mano dietro la schiena, come si conviene per una signora al settimo mese, Marco Antonio e la dottoressa Myldred con il fonendoscopio attorno al collo e la valigetta saldamente appesa alla mano destra. Non si sa mai…
I bambini correvano qua e là strillando senza senso, come tutti i bambini del mondo. Erano una ventina tra i quattro e i dieci anni, ma riuscivano a fare una baraonda come se fossero stati un migliaio.
Insomma c’erano tutti quelli di Genipabu.
C’era da far festa.
Gugu ormeggiò il suo taxi davanti alla piazza, la statua di San Sebastiano ci guardò compiacente, io mi detti da fare a tirare fuori dal portellone posteriore la seggiola a rotelle con il numero 46. Lui, con un gesto plateale che doveva aver visto in qualche film d’epoca, si precipitò ad aprire la portiera della Brasilia, che gemette ruggine, poi aiutò ciò che restava di Maria Beatriz a scendere e a sedersi sulla 46.
Mil felicidades e amor no coração
Que a sua vida seja sempre doce e emoção
Bate bate palma que é hora de cantar
Agora vamos juntos vamos lá
Parabéns, uh uh
Parabéns, uh uh…
Tutti cantavano Parabéns battendo le mani accompagnati dalla chitarra di Fernando il pedreiro, detto Violão. Vidi, incredulo, cantare, battere le mani e saltellare perfino l’imperturbabile Janilson. Il fonendo di Myldred cadde per terra e lei non se ne accorse neppure.
Jurema troneggiava. Imponente.
JENIPABU
Ci vado da molti anni. Il viaggio è lungo e noioso, ma ne vale la pena.
Jenipabu, che adesso si chiama non so per quale motivo Genipabu, è un gran bel posto. È una spiaggia di Natal. Dico “spiaggia” perché nella sua magnificenza è così modesta che non è mai riuscita a guadagnarsi il nome di paese o cittadina o altro. Topograficamente è una strada, Rua Vereador Ricardo Afonso. Non più di cinquecento metri, un chilometro se comprendiamo Tabu, con due file di case: una fila dà sulla spiaggia larghissima, l’altra sul mato: la foresta di caju e mangrovie.
L’oceano Atlantico rispetta Genipabu. Anche quando la marea è alta e lui è infuriato, non arriva mai a lambire le case e le pousade.
Genipabu è una spiaggia dunque, che, con la marea bassa, specialmente quella della luna di gennaio, diventa un enorme luccicante specchio dorato dove le grasse nuvole si guardano vanitose e provano le loro bizzarre acconciature.
A sud l’arenile termina, dopo una dolce insenatura spesso visitata da delfini zuzzurelloni, con una duna alta con due grandi gobbe color miele d’acacia. Un dromedario di sabbia. Tra le gobbe un pennacchio verde scuro, quasi nero controluce. È una grande pianta di caju che Dio solo sa come abbia fatto a nascere e crescere così rigogliosa, proprio lì sotto un sole che non perdona, senza acqua, con il solo nutrimento di quella silice salmastra. Un mistero, se volete un piccolissimo mistero, ma pur sempre uno dei tanti misteri di Genipabu.
Lì tutti sono abituati a nascere e crescere con pochissimo. E a morire con semplicità.
I colori. Sono esagerati. Pieni. Morbidi a volte e sanno essere, all’occasione, dolci come le labbra di un’adolescente. Hanno forma, danno forma a tutte le cose. Sono colori che curano, sono una terapia per gli occhi e per l’anima. Un grande poeta dovrebbe cantarli, descrivere le emozioni e i sentimenti che provocano. I colori di Genipabu sono colori e ci sono tutti quelli dell’iride e anche qualcuno in più.
Verso nord per un paio di chilometri, mentre il mare allegramente ci invita spumeggiando a giocare con le sue onde, raggiungiamo un luogo stupefacente. La barriera di rocce nel mare è alta, separata ogni tanto solo dalla schiuma di qualche ondata più energica che forma un’enorme piscina naturale d’acqua calda, tranquilla: inevitabile dopo la camminata sotto quel sole. Poco più in là neanche dieci minuti di camminata, una meraviglia, uno stupore: l’estuario di un piccolo fiume le cui acque entrano levigate nell’affettuoso abbraccio dell’oceano. Il ristoro di un bagno in acqua dolce.
Cielo blu, più blu che azzurro, casette bianche sullo sfondo, palme, piccole dune di sabbia caldissima. Un uomo in acqua con il suo cavallo, lo lava e l’animale gli è grato.
A me sembra strano: non si vede mai un solo gabbiano. Mi mancano. Mi accontento di veder veleggiare i neri Urubù: la mia passione è volare e li studio. Sono degli spazzini che tengono pulite le spiagge e le dune. Sono avvoltoi. Sanno come sfruttare il vento e volano in circolo, non battono quasi mai le loro ali, sono veri maestri e, se li vedi scendere in picchiata, vuol dire che hanno individuato un morto, una carogna. In aria sono belli, a terra sono bruttini; si vede che sono avvoltoi.
Sugli Urubù ci sono delle storie. Si dice che durante la seconda guerra mondiale venissero catturati, fatti fuori e spennati. Ben ripuliti si vendevano come gustosi tacchini agli americani che avevano una base aerea proprio a Natal, per questo detta “Trampolim da vitoria”. Non risultano americani morti per intossicazione alimentare.
C’è poi la leggenda del rospo e l’Urubù. Pare che il rospo abbia una pelle brutta e bitorzoluta perché un Urubù suonatore di chitarra l’avrebbe fatto precipitare dall’alto, dopo che il rospo si era nascosto dentro alla sua chitarra per burlarsi di lui. Esiti cicatriziali da grave trauma.
Molto altro è Genipabu, ma questa è l’idea. Alla fine potrei dire che il vento ti accarezza e non ti fa sentire il sole che ti sta bruciando la pelle, o che puoi perdere tempo contemplando il colibrì, che in portoghese si chiama con un nome poetico “bejaflor” (bacia fiori), mentre succhia i fiori che non mancano mai nei giardini anche più modesti. Basta dire che è un gran bel posto dove, se la sera pianti un ombrello, la mattina ha le foglie ed è fiorito. Nient’altro.
Questa storia nasce lì. Non poteva che nascere lì.
★★★★★
Se il libro vi incuriosisce, click sulla copertina per maggiori info.
Il buon giorno di vede dal mattino, dicono, e un buon incipit e una copertina accattivante possono essere il perfetto bigliettino da visita di un libro.
Il buon giorno di vede dal mattino, dicono, e un buon incipit e una copertina accattivante possono essere il perfetto bigliettino da visita di un libro.
Secondo voi, quante stelline si merita il biglietto da visita di questo libro?
Chi ben comincia Ogni lunedì, le prime righe di un libro + la sua copertina = bigliettino da visita dell'opera. |
Nessun commento